Il
G20 fa spettacolo, il G2 sostanza
Di
Carlo Pelanda (31-3-2009)
Il G20 – cioè il gruppo di Stati che forma la stragrande maggioranza
del Pil mondiale – si riunirà a Londra il prossimo 2
aprile. La scelta della città è un po’ sfortunata perché evoca un analogo
summit a 66 nazioni lì tenutosi nel 1933 con lo stesso scopo di trovare una
soluzione internazionale, e non tante di tipo nazionalista, alla depressione globale di allora. Il summit fallì per l’eccesso di interessi nazionali divergenti. Probabilmente quello del
2009 non fallirà perché tutti i governi hanno interesse a lanciare messaggi di ottimismo e di collaborazione. Ma certamente, fuori dalla retorica dei comunicati, non produrrà risultati
significativi in termini di coordinamento globale. Tuttavia, potrà limitare le
reazioni protezionistiche alla crisi attuate dalle singoli
nazioni. Va ricordato, infatti, che la Grande depressione degli
anni ‘30 non fu causata dal crollo borsistico del
1929, ma dal tipo di reazione: restrizione della liquidità invece che sua
espansione, aumento delle tasse (in America) invece che riduzione e,
soprattutto, barriere protezionistiche al commercio internazionale che lo
ridussero ai minimi facendo collassare le
esportazioni di tutti. Il massimo fattibile dal G20 sarà il ridurre questo
pericolo. Ma dove dobbiamo guardare, allora, per
capire chi sta producendo soluzioni attive?
Dobbiamo
osservare il G2 sino – americano. Il mercato globale
non è rotondo, ma piramidale. Al vertice c’è l’America che regge con la sua
capacità di importazione le esportazioni da tutte le
economie nazionali, in particolare di quella cinese. Il modello di sviluppo
cinese dipende dall’alto volume di esportazioni. Per questo Pechino reimpiega i
dollari guadagnati vendendo beni commerciali per finanziare il debito americano
in modo che l’economia statunitense possa restare in continua e forte crescita.
Tale sistema economico binario, che costituisce il centro economico
del pianeta, è stato in vigore dalla metà degli anni ’90 fino a pochi mesi fa.
E’ la vera causa sistemica (indiretta) della crisi finanziaria in quanto la
pompa di capitale cinese ha spinto le operazioni a debito in America e
globalmente oltre qualsiasi limite di sostenibilità. Nel settembre 2008
l’America “si è rotta” ed ha smesso di importare. In 5 mesi la Cina
ha perso quasi 1/3 del suo export – e circa 40 milioni di posti di lavoro – il
Giappone perfino la metà. A sua volta la Cina e gli altri
esportatori hanno importato di meno. E così, per effetto catena, l’implosione
americana ha causato il crollo della domanda globale,
sincronico perché ha ceduto il pilastro del sistema mondiale. La recessione in
atto, in sintesi, ha questa natura. L’unica via di uscita
è la ripresa dell’America e del suo effetto traino sul resto del mondo perché i
modelli economici non possono essere cambiati in poco tempo. Per riuscirci,
oltre alla politica monetaria propulsiva attuata dalla Riserva federale,
l’Amministrazione Obama ha acceso un enorme debito
pubblico stimolativo. Ma la Cina ha segnalato che ha dubbi sul
fatto di comprarglielo. Primo, perché Pechino non ha tutti i
soldi sufficienti. Secondo, perché teme il crollo del
dollaro e l’inflazione. La scorsa settimana, infatti, ha comunicato a
sorpresa che vorrebbe nel futuro l’abbandono del dollaro come moneta di
riferimento e la sua sostituzione con una moneta bilanciata, cioè
un paniere di valute come fu l’Ecu in Europa. Potrebbe essere solo una scaramuccia negoziale per ottenere
più vantaggi. Ma comunque è una frattura del G2 che
regge l’economia mondiale. Questo è il punto da tenere sotto
osservazione per capire cosa realmente ci succederà nei prossimi
mesi.
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